THOMAS
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(alcuni brani scelti)
Quando fa giorno la notte è ancora lunga per me, e
allora vorrei saper cantare. Spalancherei la finestra e canterei
qualcosa nella notte, qualcosa che possa aprirne il cielo…
Bisogna aver cura della propria voce, fin da piccoli. La voce e la
musica. Ci sono vecchi che sanno cantare meglio dei giovani. Ricordo una
vecchia con una voce…Cantava su e giù per le scale. La spiavo passare
(dallo spiraglio della porta). Mi turbava. Cantare senza smettere finché
non ti portano via… quindici anni ha vissuto qui, asmatica, e nonostante
tutto con una voce… nelle pause si sentiva un sibilo. Ho capito dopo,
molto dopo di cosa si trattasse
Un giorno l’hanno portata via blu in faccia, nella mano incrampita lo
spray.
Il dizionario come sempre mi soccorre: per gli asmatici anche la paura è
causa di morte per asfissia.
Prima o poi la gente comincia a radunarsi nelle piazze, ogni giorno. Si
sistema numerosa in posizione, in formazione, inizia a parlare in coro,
a condurre lezioni di ginnastica, a tenere discorsi, comizi. Non posso
guardare. Odio le lezioni pubbliche di ginnastica. Viaggiare in-forma,
così si dice; chi non risica non rosica, così si dice. Tutto può essere.
La gente può andare girando dove vuole, e siccome la terra non è piatta
non cadrà nel vuoto né inciamperà ad alcuna frontiera. La terra è come
una palla, e quindi prima o poi la gente ritorna là da dove è partita. E
quindi io preferisco restare dove sono. In tutta calma guardo le
correnti che scorrono sotto le mie finestre. Correnti biciclette,
correnti passeggini, correnti pedoni, correnti auto. Io sono l’asse e
tutto mi gira intorno; io sono l’uomo forte che resta fermo, immobile.
Gli altri scorrono come latte versato, e proprio come il latte diventano
acidi e rancidi a fiocchi e come formaggio e si decompongono e vengono
spazzati via o si seccano in un punto o si perdono tra le fessure di una
travatura. No, meglio rimanere a casa e bere una tazza di tè.
Da un paio d’anni il tè fa schifo se lo lasci freddare. Così chiudo gli
occhi e lo bevo tiepido. Forse è il detersivo che sciaborda sul tè. O
già lo mischiano nell’acqua prima che arrivi al rubinetto. O ci
annaffiano il tè. O sta già nell’aria che respiri. Bisognerebbe essere
fabbricanti di detersivo.
Quando chiudo le finestre non sento più nulla. Quasi. Potrebbe essere un
mormorio di migliaia di voci. Piacevole? Spiacevole? Comunque non solo
il rumore è un mormorio, ma anche l’aria in casa è diversa da quando ho
i doppi vetri. Me ne sono accorto da un panino imbustato. Non ce la
facevo ad aprirlo con le mani e allora ho preso un coltello. Ficcarlo
nella plastica ha liberato un rumore commovente come un gemito, magari
l’ultimo. Mentre lo mordevo ho avuto la sensazione che il panino fosse
morto. Ha succhiato l’aria e perciò è morto.
Spesso non riesco a soffocare il desiderio di liberare me da questo mio
corpo grosso pesante. Ma non ce la faccio. Mi ci devo aggrappare a
questo mio corpo, ci devo restare dentro. E’ disumano trattenere me in
questo mio corpo che non mi assomiglia. Questa cosa inutile ma a volte
utile: tempio, fabbrica, discarica.
Qualche giorno fa ho recitato al ragazzo una poesia. Mi sarebbe piaciuto
se l’avesse imparata a memoria, ma lui non impara a memoria, dice.
Madre, mamma ma’ il latte sempre di più sarà…o qualcosa di simile. Mi è
dispiaciuto che non abbia voluto impararla. Ha detto: “te la suono
subito, la poesia”. E ha suonato all’istante con la sua armonica una
musica di latte. Hai ragione, gli ho detto, imparare a memoria non ha
senso se tu fai musica con la poesia. Mentre suonava ho dimenticato
anch’io il senso delle parole. Me lo ricordassi! Almeno avrei qualcosa
finché non torna il ragazzo a suonarmi di nuovo la musica di latte.
La ragazza carina del bar di fronte sistema i tavoli come al solito. Tra
poco arrivano per fare colazione. Siedono noncuranti e hanno la
sensazione che le vibrazioni nervose irregolari eccitate siano l’effetto
dei bagordi della sera prima. Forse hanno ragione. Nel dizionario ho
letto che l’emozione non è altro che un liquido che si agita in bolle.
Quando uno è felice esplode una bolla e il liquido scappa via. Tutto
qua. Il dizionario è una mano santa. Ogni giorno s’inventano parole
nuove. Nuove per me. Spesso le usano impropriamente ma tanto questo non
importa a nessuno.
Chi sa cantare ha sicuramente faticato e deve essere proprio triste se
non ha qualcuno che l’ascolti. Eppoi se uno canta la gioia di vivere lo
fa per sé, e snatura il canto. Se uno canta per tristezza lo fa per
sentirsi protagonista. Chi canta per solitudine farebbe meglio a farlo
chiuso tra quattro mura, non in pubblico per non sentirsi solo. Se
qualcuno canta il suo povero essere è proprio un meschino, perché cosa
mai può essere un povero essere in un’evoluzione di suoni, che non possa
essere rivendicato dai rumori di una mediocre teiera?
Adesso vorrei tanto ascoltare una musica. Sono stanco. Per qualche
istante m’addormento sulla mia sedia davati alla finestra. Mi succede e
mi fa bene. Chiudo la finestra e migliaia di voci mi mormorano in sonno.
Alcune cantano, voci di donna che mi chiamano. Altre mi avvertono di non
uscire, perché fulmini invisibili mi ucciderebbero. Altre cantano più
forte che non è vero. Allora quelle cantano ancora più forte che ormai
non ascolterò più la musica di latte, che nessuna poesia e nessun
dizionario potrà più aiutarmi. Il mio sonno adesso è agitato e le voci
non sono altro che il rumore del traffico.
Così non si può dormire! E allora mi sveglio. Non so quanto ho dormito.
Mi sembra d’aver dormito il sonno di una bella addormentata, da troppi
anni. Riempio la teiera bollente d’acqua, sibila, mi brucio le dita.
Basta! Basta col tè! Non aspetterò più neanche il ragazzo.
Non volevo niente. Non volevo avere, ricevere, vincere, raggiungere,
sgraffignare niente. Seppure avessi voluto concedermi qualcosa, una
minima debolezza, allora avrei voluto intravedere una cosa in
lontananza, e congedarla con uno sguardo veloce, appena percepibile, –
per non saziarmi. Questo qualcosa non doveva essere una donna o un uomo.
Avrebbe potuto essere una cosa, animata o inanimata come un vaso con un
mazzo di fiori tremante, una cagna o una gatta in calore, un uccello in
trappola. O un macchinario che cigola appena percepibile, e
all’improvviso, quando qualcosa al suo interno s’inceppa, si trasforma
in un doloroso silenzio. Un’assenza di toni per qualche istante, finché
risucchia nel suo vuoto i rumori che lo circondano. Questo il motivo per
cui avevo lasciato la mia casa; per vivere con dolore questa frazione di
silenzio, o il buio disorientante dopo un abbaglio improvviso scivolando
poi di nuovo nella luce familiare. Svegliarsi interrompendo un sogno e
il riaddormentarsi e tornare a sognare dal punto in cui ci si era
spaventati, lasciare che un inciampo nella regolarità del battito
cardiaco torni regolare, o lasciar svanire in uno sguardo l’attimo di un
bacio allontanato nell’abituale solitudine senza corpo.
Oggi non ho fame. Dopo quasi un secolo oggi ho voglia di un caffè! Mi
guardo nello specchio: quanto sono pallido. Mi rado. Mi vesto. “Vestiti
di chiaro così non sembrerai più pallido come un fantasma”. Mi profumo.
Sono pronto. Nessuno sulla mia strada. Nessuno che dica: „guarda com’è
elegante quest’uomo, questo vecchio signore“. Nessuno che dica: „guarda
questo vecchio signore, com’è pallido“. Sono solo nel bar. Sono solo per
strada. In una giornata così bella. E le finestre, tutte le finestre
spalancate. I piccioni entreranno, non usciranno più. Faranno il nido da
me, coi capelli, peli, polvere. Si accoppieranno, faranno le uova,
coveranno, aspetteranno tubando. Chi l’avrebbe mai detto che un giorno i
piccioni avrebbero abitato le nostre case .
traduzione a cura di Monica Giovinazzi
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