Se solo smettesse questo battito, un colpo al secondo, i millequattrocentoquaranta minuti di questo giorno! Un giorno come nessun altro, questo giorno, ma voglio scoprire cos'è che lo rende diverso da ogni altro giorno, penso, e sforzo il cervello  che ronza con un gesto appagato dell’inutilità. Rinuncio. E riprendo.
 

 



 



THOMAS STRITTMATTER
NOTE DI REGIA
TESTI
im Kolk
Raabe Bajkal
Gesualdo
Milchmusik
Brach
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(da una recensione in francese di Milchmusik - musica da latte)

Thomas Strittmatter est né fantôme, observateur  acharné des détails mortifères du quotidien : le thé en sachet qui laisse en tiédissant une tâche au fond de la tasse, analogue à celle, irisée, de l'huile sur la chaussée,  puis comparée à des images de marée noire apercues à la télé ; un vieillard qui, de la retraite de sa cuisine, scrute. Les flux migrent, les camions roulent, tintinnabulants, les passants passent, tandis qu'insomniaque diurne, il reste immobile et se fait livrer par dizaines des boîtes de corned-beef. Ou s'envole, mué en coléoptère, avant de tourbilloner parmi les âcres fumées d'une cheminée d'usine, et de retomber sur le sol carrelé d'un café


IM KOLK
 
(Kolk è una specie di fosso ripieno d'acqua)
 

"Palpita il tavolo in trepida attesa della tazzina e sotto il tavolo pulsa l’asfalto coperto di polvere, e sotto il mio sedere la sedia, e nel momento esatto in cui mi alzo, ecco che ritorna, il battere e pulsare, che percorre il cuoio delle suole, la punta delle dita dei piedi, delle mani e dei capelli. Fresca fanciulla, tra i venti e i trenta, ti avvicini a me e mi inviti a entrare in questo locale, con te, da solo, io, il cliente, con te che ti devi curare di me.

Se solo smettesse questo battito, un colpo al secondo, i millequattrocentoquaranta minuti di questo giorno! Un giorno come nessun altro, questo giorno, ma voglio scoprire cos'è che lo rende diverso da ogni altro giorno, penso, e sforzo il cervello  che ronza con un gesto appagato dell’inutilità. Rinuncio. E riprendo.

Un senso di appagamento anche a casa. Solo nel pomeriggio mi ero reso conto che la mia macchina aveva smesso di ronzare. Non avevo più voglia di uscire. Ero certo che quella sera nulla avrebbe potuto strapparmi al mio gelido e comodo vuoto e alla mia cara tranquillità sonnolenta. Ma poi uscii. Non mi spinse né l’inquietudine e nemmeno il desiderio d’avventura, e tantomeno un qualsiasi avvenimento o evento, in una giornata per me assolutamente priva di eventi. Le voci sulla segreteria telefonica potevano cercare di impietosirmi, o di convincermi, di blandirmi, magari confrasi smozzicate, mi potevano tentarmi o implorarmi. Non volevo voci di cui sapevo già il corpo, l’odore, la temperatura. La loro umidità. Non volevo niente. Non volevo avere, ricevere, ottenere, raggiungere, conquistare niente. Se proprio desideravo qualcosa, ecco, un leggerissimo cedimento, avrei desiderato poter scorgere un punto indefinito in lontananza, con un’occhiata fulminea, appena percettibile – e soddisfare il tutto col niente. E non di una donna o di un uomo doveva trattarsi, poteva essere una cosa, animata o meno, come un mazzo di fiori tremolanti (di bellezza) in un vaso, una cagna in calore, una gatta randagia, un uccello nella gabbia. Ecco di nuovo la macchina che ronza, appena percettibile, e d’improvviso, quando al suo interno qualcosa s’inceppa, cala un silenzio che fa male. Un suono sotto vuoto, per un attimo, fino a che il vuoto che gli è proprio risucchia i rumori che lo circondano. Ero uscito di casa per questo; percepire il frammento di un silenzio come dolore, o il buio, che confonde dopo un improvviso bagliore, e poi scivolare di nuovo nella luce consueta. Il risveglio da un sogno, per un secondo, per poi riaddormentarsi e continuare a sognare. Dal momento del risveglio per la paura, lasciare che un inciampo nella regolarità del battito cardiaco rifluisca nella consueta regolarità o lasciar sfuggire l’istante di un bacio lontano in uno sguardo, nell’abituale solitudine senza corpo.

E poiché il cielo si mantenne coperto e la città non permise al vento di alzarsi, se non a quello del traffico che a tratti scorreva via veloce e a tratti arrancava, la notte promise di non irrompere, ma di sopraggiungere con cautela, di intrufolarsi di soppiatto in una giornata già avara di luce. Ho fatto montare un apparecchio in grado di riprodurre la stessa intensità della luce del giorno..."

(Antonio Ventresca - 2005)