LA CLASSE MORTA
                                                                           di Tadeusz Kantor
                                                                           
regia di Monica Giovinazzi
                                                         produzione RaabeTeatro Roma

                                                         Recensioni e illustrazioni:
                                                         recensioni di:    [Mauro Corso - TeatroTeatro.it] [Andrea Pocosgnich
] -                                                                                    [Giovanna Vincenti - Close Up]
                                                                                          [
Livia Bidoli - Oltrecultura - ed. 08
]
                                                                          
 illustrazioni di [Karma - Carlo Maino]

 
Recensione di Mauro Corso
www.teatroteatro.it



portrait di Kantor a cura di Karma

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Trama:

La classe morta è una sperimentazione che nasce dalla rivisitazione della omonima partitura scenica per la voglia di riproporre tematiche radicali fuori da ogni metafora e rappresentazione, con assoluta informalità e con il profondo vissuto delle umane contraddizioni.

 

Recensione

Può risultare poco agevole raccontare in brevi battute la trama de La Classe Morta di Kantor a chi non conosca il testo. Si può correre il rischio di svilire o banalizzare uno dei capolavori del teatro del '900. Lo stesso Kantor definiva l'opera per cui è più conosciuto al di fuori dei confini della madrepatria (la Polonia) come seduta drammatica, una rappresentazione opprimente e catartica in cui affiorano ossessioni personali, reminiscenze e nodi irrisolti e irrisolvibili senza apparente soluzione di continuità. Il pubblico si troverà  di fronte ad una classe scolastica di vecchi-bambini (è tipica di Kantor la confusione tra infanzia e senescenza, in una chiusura del cerchio in cui gli estremi si toccano) che sembrano apparire sul palcoscenico in una zona di confine tra la vita e la morte, in un limbo tra realtà e sogno. Quasi delle ombre che nel fugace transito tra il mondo terreno e l'aldilà non riescono a liberarsi del fardello delle proprie passioni terrene.

Da questo ne consegue che per un regista non è facile confrontarsi con Kantor, autore di un teatro così personale che “vale la pena sottolinearlo - non ha lasciato né scuole né eredi. Monica Giovinazzi per non correre il rischio di mettere in scena una sorta di "scimmiottamento" del maestro effettua una rilettura personale dell'opera, e anche se è un concetto paradossale a volte il "tradimento" di un testo permette una riconquista del suo spirito originario da parte degli esecutori e dello stesso pubblico. Così, in primo luogo, effettua una serie di tagli che la rendono più agile (particolare peraltro ampiamente previsto dallo stesso Kantor) ed i personaggi perdono parte della loro caratterizzazione, tanto da non essere del tutto riconoscibili neanche da parte di chi l'opera la conosce. Eppure questa necessaria riduzione non fa perdere nulla della Classe morta nel suo complesso, anzi la regia propone ai conoscitori del teatro polacco (inconsciamente o meno) un'autentica carrellata del teatro polacco, dalla szopka (il teatro tradizionale di marionette) fino al teatro di Stanislaw Ignacy Witkiewicz (con cui Kantor aveva grande dimestichezza) passando per il "circolo vizioso" così amato da Wyspianski, dal pittore Malczewski e dal regista cinematografico Andrzej Wajda. Aspetti che però sono manipolati e rielaborati da Kantor fino ad esplodere in atmosfere e situazioni dalla portata innovativa e turbativa nei confronti di chi si trova ad assistere a questo happening quale è La Classe Morta.

Fedele al dettato Kantoriano, la Giovinazzi ha usato attori non professionisti, che non conoscevano Kantor, e che si sono volontariamente sottoposti ad un laboratorio straniante ma sicuramente coinvolgente. I sette personaggi vengono gestiti come gli elementi di un'orchestra che non perfeziona la propria esecuzione solo con la voce ma anche con il corpo, fondendosi in un meccanismo ad orologeria inesorabile. Gli attori sono di tutte le età e anche se gli interpreti più maturi funzionano meglio per evidenti motivi anagrafici, anche i più giovani sono efficaci ed inquietanti nella loro presenza sulla scena.

La traduzione utilizzata è l'unica disponibile in italiano, la splendida traduzione poetica di Luigi Marinelli, che con una sapiente rielaborazione fa irrompere sulla scena le sonorità e le filastrocche kantoriane in modi immediatamente comprensibili anche in Italia. Del resto l'arte di Kantor è universale, ed è un bene che venga ricordata e riproposta, e che sia diffusa la conoscenza di un tale colosso del novecento.

[Mauro Corso]

 

Curiosità:

Questa messa in scena della Classe Morta ha il patrocinio dell'Istituto Polacco di Roma.

 

Recensione di
Andrea Pocosgnich

autore della tesi:
“L’arte teatrale di Tadeusz Kantor” 

Personaggi da "La classe morta" con la regia di M. Giovinazzi

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La classe morta del Raabe Teatro

Smorfie fisse mentre il pubblico viene fatto accomodare in sala.
Un'attrice in piedi nella prima fila di sedie, sulla sinistra. Il viso allungato, il naso segue le linee del volto, diventa prominente, gli occhi scrutano "i vivi tra gli spettatori". Accanto, un altro prototipo di attor-morto, ancora una donna (la troupe del Raabe Teatro, a parte un elemento, è tutta al femminile), schiacciata nella sua gobba è anch'essa bloccata in una smorfia, gli occhi guardano in alto, le labbra sono semi aperte, quasi a voler dire qualcosa. Dietro di loro siedono gli altri alunni di questa classe. In una suggestiva composizione visiva i vecchi-bambini mantengono ognuno la propria  espressione, il pubblico entrando si trova già di fronte a quegli esseri prematuramente colti dalla morte con le smorfie dell'infanzia sulle labbra.

All'immobilità seguono i micro-movimenti: una volta che il pubblico è entrato totalmente in sala gli alunni iniziano ad alzare le mani, "chiedere permesso per andare in bagno", questo vogliono fare, ma il tempo si dilata, un gesto immediato ricopre il tempo di una vita. Mi giro e mi accorgo che la maggior parte del pubblico, che probabilmente non ha mai visto neanche un video degli spettacoli di Kantor, è comunque rapito da quel silenzio, da quel gesto lunghissimo. Il meccanismo emozionale si mette in movimento, lo spettatore viene tenuto su un filo e quando tutte le mani degli attori  sono tese in alto: questi scappano, il silenzio torna a dominare la sala per essere definitivamente infranto da un walzer che scuote lo spettatore  e risucchia i vecchi-bambini in un girotondo attorno alle sedie.

Così si apre La classe Morta diretta da Monica Giovinazzi al Raabe Teatro, uno spazio nelle vicinanze di piazza San Cosimato che, per la sua struttura sotterranea a botte, come quasi nessun altro luogo a Roma, si avvicina allo spazio della galleria Krizstofory di Cracovia dove Kantor creò e presentò per la prima volta 'La classe morta'.
I meccanismi costruiti dalla regista, che dietro gli spettatori dirige l'orchestra, funzionano, le voci si amalgamo e gli episodi scelti illuminano con efficacia l'opera dell'artista polacco a chi non la conosce. Tra le scene più riuscite segnaliamo, oltre all'incipit sopra descritto, la recita dei nomi dei defunti; qui l'orchestrazione vocale diventa una pasta fonetica di suoni e ritmi, oppure la scena in cui uno degli alunni è alle prese con un gesto continuo ed incessante con il quale gira la ruota di una bicicletta da bambini mentre ad alta voce "declama" una serie di numeri e nello stesso momento in cui gli altri personaggi eseguono i movimenti che li rappresentano. In questo caso la regista ci mostra anche una possibile "operazione" sul testo, o meglio sulla partitura, fondendo tra di loro alcuni personaggi dello spettacolo originale o assegnando loro azioni nuove.

Nonostante la difficoltà del progetto, non stiamo qui a dilungarci sul dilemma del "mettere in scena Kantor"o meno. Monica Giovinazzi ha il merito di farci riscoprire un'opera come La classe morta e lo fa con il "minimo": solo 7 attori (i quali hanno però compreso a pieno il "non metodo kantoriano" e  una scenografia scarna (poche sedie, dei libri accatastati a terra e una sorta di gogna stilizzata). 
Questo spettacolo-studio potrebbe rappresentare l'inizio di un approfondimento del gruppo sull'arte teatrale di Tadeusz Kantor e più precisamente su La classe morta. Una prima tappa che può portare anche a diverse versioni dello spettacolo che mettano in luce caratteristiche ed episodi tralasciati in questa occasione. Si pensi ad esempio al ruolo della musica nelle opere di Kantor, al circuito empatico che crea con gli spettatori, oppure alla varietà di stili e ritmi usati nella Classe morta. Se dovessimo trovare una vera mancanza nello spettacolo del Raabe Teatro è forse proprio questa carenza, a tratti, di cambi di ritmo, di un certo alternarsi di scene e sensazioni diverse tra di loro, alla composizione delle quali avrebbe contribuito un uso più organico della musica o una diversa strutturazione di alcuni episodi.
 
[Andrea Pocosgnich]

 

Recensione di
Giovanna Vincenti 

(Close-up)
Sette inquietanti personaggi immobili, con il loro folle sguardo rivolto verso il pubblico, che pian piano prende posto nella piccola sala del Raabe Teatro di Roma. Subito si avverte l’impressione di stare per assistere a qualcosa di sconcertante: lo spettatore, ancora disorientato, viene subito catturato dai lenti ed ipnotici movimenti degli attori e non può fare a meno di chiedersi cosa stia per succedere. Ha così inizio la ‘seduta drammatica’, proprio come amava definirla lo stesso autore, de La classe morta, o meglio un’abbastanza libera rielaborazione di questa piéce (che, a partire dal ’75, fece acquistare fama mondiale a Tadeusz Kantor e al suo Cricot 2) diretta da Monica Giovinazzi. Ardua impresa riuscire a ricreare le struggenti suggestioni di quest’opera priva di una trama, il cui messaggio può giungere al pubblico, in tutta la sua potenza e drammaticità, solo attraverso una sorta di rivelazione. In fondo, risiede proprio in ciò la forza del teatro kantoriano, ed è questo, probabilmente, uno dei motivi per cui l’opera del celebre drammaturgo polacco non ha trovato quasi nessuno pronto a raccoglierne l’eredità.
La classe morta vede un gruppo di personaggi, fantocci decrepiti con atteggiamenti infantili, grotteschi ibridi tra vecchiaia e infanzia, che si ritrovano insieme a sedere su banchi di scuola. In questa situazione surreale, ognuno esprimerà paure, sospetti e traumi, ma anche ricordi ed ossessive speranze, in una macabra giostra che esprime l’alienazione dell’uomo moderno, sottoposto a continue pressioni e richieste poco comprensibili. Si viene catapultati in una dimensione che oscilla tra la vita e la morte, tra la realtà e l’immaginazione, tra la purezza e la dannazione. Anche il confine teatrale tra pubblico ed attori vacilla: non c’è lo scudo del palco, ed i personaggi trascinano gli spettatori nel loro mondo spettrale, rievocando oppressive atmosfere da incubo.
Uno spettacolo, dunque, così come il suo autore, estremamente complesso, con cui non è facile misurarsi. Una scelta senza dubbio coraggiosa quella della giovane regista, la quale però, pur rischiando di discostarsi dal testo originale con dei tagli talvolta fin troppo audaci, riesce alla fine a preservare l’essenza stessa dell’opera: ‘[...] ho lavorato sui testi di Kantor con attori non professionisti, come faceva lui. E il lavoro necessario è quello di creare un amalgama delle singole personalità attorno al bisogno di rendere vivo il messaggio affidato alla mise en espace, agli oggetti, alla loro simbologia e alla loro disposizione, alle parole più per il loro suono e la loro potenza evocatrice più che per il significato semantico. _ Per me non è difficile ma stimolante e necessario dal momento che anche nelle altre performance originali o suggerite da altri autori il mio metodo è molto simile [...]’ spiega la Giovinazzi.
Sarà per questa affinità, unita all’impegno degli interpreti capaci di mettersi in gioco e di accogliere in sé la parola kantoriana, che questo spettacolo risulta essere un rispettoso e rispettabile omaggio a questo drammaturgo, oggi un po’ trascurato.

 

Rigor mortis adolescenziale.
Tadeusz Kantor al Raabe Teatro – Roma
Oltrecultura: Recensioni Prosa

Autore: Livia Bidoli

venerdì 16 maggio 2008 21:05

Dodici sedie, tra cui quattro vuote, immerse in una luce gialla che frastorna lo spettatore i cui occhi sono proiettati sul nero delle divise da scolari dei senescenti attori non professionisti di La classe morta di Tadeusz Kantor (1915-1990).
Un fantasma derelitto si aggira tra i banchi spogli, inesistenti dove un tempo le grida scanzonate della giovinezza esprimevano chiassosamente il frastuono della vita. Lo “Zumpappapa” alle soglie di un’adolescenzia decimata dai campi di concentramento, dalla perdita di un figlio appena nato (la culla che agita la signora in preda a contrazioni reiterate e coattive), ritorna macabro. A dissolversi nella quiete di movimenti appena accennati oppure trascinati, l’uno appresso all’altro, come di zombie appena resuscitati, i manichini di ciò che erano stati, agitandosi abnormi a ritmi marziali oppure strascicati da un altro il cui rigor mortis risulta appena più lievemente accennato.
Pupazzi neri di un’infanzia raggelata nel sonno eterno di un giorno che dura un’ora, e che non ha senso nel ripercuotersi di gesti sconclusionati, rarefatti e a scatti. La rievocazione schizofrenica di lampi di ricordi e movimenti degli arti, schiavi di un riflesso ridondante di un mondo inevitabilmente inabissatosi tra le pieghe del passato.
Prometeo, le Idi di marzo (quando Giulio Cesare fu ucciso il 15 marzo) stanno a decantare un tormento che non ha requie, incomunicabile come tutto il teatro di Kantor, una scissione perpetua che dipinge dei quadri composti da persone e ombre rilucenti tra le bianche pareti.
Monica Giovinazzi racconta tutto questo nella sua rappresentazione, nella sua scelta parziale di un testo che ripropone a Vienna a fine mese in tedesco e che ha accarezzato da dentro partecipando alla messinscena oltre che dirigendola, attrice-direttrice di un nucleo divelto dalle parole, dai suoni, dai rantoli. L’unica levità inserita risiede nel walzer de “La bella addormentata” di Ciaikowski, che coccola e batte il tempo mentre i suoi burattini si divincolano tra paure ancestrali ormai tese e disseminati in un presente statico e silente.

 
 

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