Recensione di Mauro Corso www.teatroteatro.it ![]() ![]() ![]() vai alla pagina delle immagini in grandezza reale |
Trama: RecensionePuò risultare poco
agevole raccontare in brevi battute la trama de La Classe Morta
di Kantor a chi non conosca il testo. Si può correre il rischio di
svilire o banalizzare uno dei capolavori del teatro del '900. Lo stesso
Kantor definiva l'opera per cui è più conosciuto al di fuori dei confini
della madrepatria (la Polonia) come seduta drammatica, una
rappresentazione opprimente e catartica in cui affiorano ossessioni
personali, reminiscenze e nodi irrisolti e irrisolvibili senza apparente
soluzione di continuità. Il pubblico si troverà di fronte ad una classe
scolastica di vecchi-bambini (è tipica di Kantor la confusione tra
infanzia e senescenza, in una chiusura del cerchio in cui gli estremi si
toccano) che sembrano apparire sul palcoscenico in una zona di confine
tra la vita e la morte, in un limbo tra realtà e sogno. Quasi delle
ombre che nel fugace transito tra il mondo terreno e l'aldilà non
riescono a liberarsi del fardello delle proprie passioni terrene. [Mauro Corso] Curiosità:Questa messa in scena della Classe Morta ha il patrocinio dell'Istituto Polacco di Roma.
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Recensione di
Personaggi da "La classe morta" con la
regia di M. Giovinazzi
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La classe morta del Raabe Teatro
Smorfie fisse mentre il pubblico viene
fatto accomodare in sala. All'immobilità seguono i micro-movimenti: una volta che il pubblico è entrato totalmente in sala gli alunni iniziano ad alzare le mani, "chiedere permesso per andare in bagno", questo vogliono fare, ma il tempo si dilata, un gesto immediato ricopre il tempo di una vita. Mi giro e mi accorgo che la maggior parte del pubblico, che probabilmente non ha mai visto neanche un video degli spettacoli di Kantor, è comunque rapito da quel silenzio, da quel gesto lunghissimo. Il meccanismo emozionale si mette in movimento, lo spettatore viene tenuto su un filo e quando tutte le mani degli attori sono tese in alto: questi scappano, il silenzio torna a dominare la sala per essere definitivamente infranto da un walzer che scuote lo spettatore e risucchia i vecchi-bambini in un girotondo attorno alle sedie. Così si apre La classe Morta diretta da
Monica Giovinazzi al Raabe Teatro, uno spazio nelle vicinanze di piazza
San Cosimato che, per la sua struttura sotterranea a botte, come quasi
nessun altro luogo a Roma, si avvicina allo spazio della galleria
Krizstofory di Cracovia dove Kantor creò e presentò per la prima volta
'La classe morta'.
Nonostante la difficoltà del progetto,
non stiamo qui a dilungarci sul dilemma del "mettere in scena
Kantor"o meno. Monica Giovinazzi ha il merito di farci riscoprire
un'opera come La classe morta e lo fa con il "minimo": solo 7 attori
(i quali hanno però compreso a pieno il "non metodo kantoriano" e
una scenografia scarna (poche sedie, dei libri accatastati a terra e
una sorta di gogna stilizzata).
Questo spettacolo-studio potrebbe rappresentare l'inizio di un approfondimento del gruppo sull'arte teatrale di Tadeusz Kantor e più precisamente su La classe morta. Una prima tappa che può portare anche a diverse versioni dello spettacolo che mettano in luce caratteristiche ed episodi tralasciati in questa occasione. Si pensi ad esempio al ruolo della musica nelle opere di Kantor, al circuito empatico che crea con gli spettatori, oppure alla varietà di stili e ritmi usati nella Classe morta. Se dovessimo trovare una vera mancanza nello spettacolo del Raabe Teatro è forse proprio questa carenza, a tratti, di cambi di ritmo, di un certo alternarsi di scene e sensazioni diverse tra di loro, alla composizione delle quali avrebbe contribuito un uso più organico della musica o una diversa strutturazione di alcuni episodi.
[Andrea Pocosgnich]
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Recensione di Giovanna Vincenti (Close-up) ![]() |
Sette inquietanti personaggi immobili, con
il loro folle sguardo rivolto verso il pubblico, che pian piano prende
posto nella piccola sala del Raabe Teatro di Roma. Subito si avverte
l’impressione di stare per assistere a qualcosa di sconcertante: lo
spettatore, ancora disorientato, viene subito catturato dai lenti ed
ipnotici movimenti degli attori e non può fare a meno di chiedersi cosa
stia per succedere. Ha così inizio la ‘seduta drammatica’, proprio come
amava definirla lo stesso autore, de La classe morta, o meglio
un’abbastanza libera rielaborazione di questa piéce (che, a partire dal
’75, fece acquistare fama mondiale a Tadeusz Kantor e al suo Cricot 2)
diretta da Monica Giovinazzi. Ardua impresa riuscire a ricreare le
struggenti suggestioni di quest’opera priva di una trama, il cui
messaggio può giungere al pubblico, in tutta la sua potenza e
drammaticità, solo attraverso una sorta di rivelazione. In fondo,
risiede proprio in ciò la forza del teatro kantoriano, ed è questo,
probabilmente, uno dei motivi per cui l’opera del celebre drammaturgo
polacco non ha trovato quasi nessuno pronto a raccoglierne l’eredità. La classe morta vede un gruppo di personaggi, fantocci decrepiti con atteggiamenti infantili, grotteschi ibridi tra vecchiaia e infanzia, che si ritrovano insieme a sedere su banchi di scuola. In questa situazione surreale, ognuno esprimerà paure, sospetti e traumi, ma anche ricordi ed ossessive speranze, in una macabra giostra che esprime l’alienazione dell’uomo moderno, sottoposto a continue pressioni e richieste poco comprensibili. Si viene catapultati in una dimensione che oscilla tra la vita e la morte, tra la realtà e l’immaginazione, tra la purezza e la dannazione. Anche il confine teatrale tra pubblico ed attori vacilla: non c’è lo scudo del palco, ed i personaggi trascinano gli spettatori nel loro mondo spettrale, rievocando oppressive atmosfere da incubo. Uno spettacolo, dunque, così come il suo autore, estremamente complesso, con cui non è facile misurarsi. Una scelta senza dubbio coraggiosa quella della giovane regista, la quale però, pur rischiando di discostarsi dal testo originale con dei tagli talvolta fin troppo audaci, riesce alla fine a preservare l’essenza stessa dell’opera: ‘[...] ho lavorato sui testi di Kantor con attori non professionisti, come faceva lui. E il lavoro necessario è quello di creare un amalgama delle singole personalità attorno al bisogno di rendere vivo il messaggio affidato alla mise en espace, agli oggetti, alla loro simbologia e alla loro disposizione, alle parole più per il loro suono e la loro potenza evocatrice più che per il significato semantico. _ Per me non è difficile ma stimolante e necessario dal momento che anche nelle altre performance originali o suggerite da altri autori il mio metodo è molto simile [...]’ spiega la Giovinazzi. Sarà per questa affinità, unita all’impegno degli interpreti capaci di mettersi in gioco e di accogliere in sé la parola kantoriana, che questo spettacolo risulta essere un rispettoso e rispettabile omaggio a questo drammaturgo, oggi un po’ trascurato.
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Rigor mortis adolescenziale.
Tadeusz Kantor al Raabe Teatro – Roma Oltrecultura: Recensioni Prosa Autore: Livia Bidoli venerdì 16 maggio 2008 21:05 Dodici sedie, tra cui quattro vuote, immerse in una luce gialla che frastorna lo spettatore i cui occhi sono proiettati sul nero delle divise da scolari dei senescenti attori non professionisti di La classe morta di Tadeusz Kantor (1915-1990). Un fantasma derelitto si aggira tra i banchi spogli, inesistenti dove un tempo le grida scanzonate della giovinezza esprimevano chiassosamente il frastuono della vita. Lo “Zumpappapa” alle soglie di un’adolescenzia decimata dai campi di concentramento, dalla perdita di un figlio appena nato (la culla che agita la signora in preda a contrazioni reiterate e coattive), ritorna macabro. A dissolversi nella quiete di movimenti appena accennati oppure trascinati, l’uno appresso all’altro, come di zombie appena resuscitati, i manichini di ciò che erano stati, agitandosi abnormi a ritmi marziali oppure strascicati da un altro il cui rigor mortis risulta appena più lievemente accennato. Pupazzi neri di un’infanzia raggelata nel sonno eterno di un giorno che dura un’ora, e che non ha senso nel ripercuotersi di gesti sconclusionati, rarefatti e a scatti. La rievocazione schizofrenica di lampi di ricordi e movimenti degli arti, schiavi di un riflesso ridondante di un mondo inevitabilmente inabissatosi tra le pieghe del passato. Prometeo, le Idi di marzo (quando Giulio Cesare fu ucciso il 15 marzo) stanno a decantare un tormento che non ha requie, incomunicabile come tutto il teatro di Kantor, una scissione perpetua che dipinge dei quadri composti da persone e ombre rilucenti tra le bianche pareti. Monica Giovinazzi racconta tutto questo nella sua rappresentazione, nella sua scelta parziale di un testo che ripropone a Vienna a fine mese in tedesco e che ha accarezzato da dentro partecipando alla messinscena oltre che dirigendola, attrice-direttrice di un nucleo divelto dalle parole, dai suoni, dai rantoli. L’unica levità inserita risiede nel walzer de “La bella addormentata” di Ciaikowski, che coccola e batte il tempo mentre i suoi burattini si divincolano tra paure ancestrali ormai tese e disseminati in un presente statico e silente. |
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