la famiglia

la terra

il mito

la resistenza

 

 

Una famiglia italiana
storia dei Cervi di Campegine

documentario teatrale

di Stefania Di Nuzzo e Emanuela Garimberti
regia di Stefania Di Nuzzo
lunedì 12 dicembre 2011 ore 21
martedì 13 dicembre 2011 ore 21

lunedì 12 dicembre 2011 ore 21
martedì 13 dicembre 2011 ore 21

prenotazione consigliata

Raabe Teatro via Agostino Bertani 22 Trastevere – Roma
www.raabe.it; promozioneraabe@gmail.com; 339/1213419

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Il 28 dicembre 1943, i sette fratelli Cervi, insieme all'amico Quarto Camurri, furono fucilati per rappresaglia nell'area del poligono di tiro di Reggio Emilia. Erano stati catturati un mese prima in un drammatico assedio della casa colonica dove vivevano con le loro famiglie e coi vecchi genitori, Genoeffa e Alcide, quest'ultimo arrestato coi figli. I Cervi, contadini reggiani, erano colpevoli di aver nascosto e protetto disertori, prigionieri, dissidenti e di aver partecipato ad azioni di sabotaggio e di approvvigionamento di armi in pianura e in montagna, dando vita ad una cellula della Resistenza reggiana tanto attiva quanto autonoma, nota come “banda Cervi”.

Ma molto più i Cervi erano colpevoli, agli occhi del fascismo agonizzante, di essere sempre stati una famiglia di irriducibile fede nel progresso, nella pace, nella giustizia e nella libertà, entrati da subito in rotta di collisione col regime per manifesta incompatibilità.

"Il mio interesse per i Cervi nasce, come per molti, dalla folgorante lettura del libro di Alcide: i Cervi sono un esempio di comunità solidale non solo all'interno della famiglia naturale, ma anche col resto del corpo sociale; l'idea di progresso coincide con quella di benessere diffuso e per tutti. Al progresso è strettamente legata l'idea di una cultura partecipata che emancipa l'uomo e lo fa libero: da qui l'amore, il rispetto e la fiducia che i Cervi nutrivano nei confronti del sapere e del libro. Mi è parso naturale che una famiglia simile fosse antifascista e fosse vista dal fascismo come un pericolo da estirpare; e fu estirpata. I Cervi mostrano l'Italia come sarebbe potuta essere e non è stata, la parte più generosa e viva del Paese; per questa colpa sono stati uccisi." (S.D.N.)

Il documentario, in sette quadri, si sofferma sulla vicenda dei Cervi con l’obiettivo di testimoniare il ruolo della famiglia nel tessuto reggiano e nel panorama nazionale, quale avanguardia progressista ed esempio di lucida coerenza.
 
I- Alcide
II- La madre
III- La biblioteca
IV- San Martino
V- Pastasciutta
VI- Vincerla
VII- Non ci fermeranno più

Al termine dello spettacolo, il pubblico potrà accedere a una mostra di documenti, libri e audiovisivi e disporrà di materiale informativo da portare via.

la famiglia

La famiglia di Alcide Cervi arriva ai Campi Rossi nell'autunno del 1934. Nella casa colonica e nel podere vivono e lavorano Alcide e Genoeffa con i sette figli maschi: Gelindo, Antenore, Aldo, Ovidio, Ferdinando, Agostino, Ettore. Il più grande ha 33 anni, il più piccolo venti in meno. Delle sorelle, Diomira è già sposata, Rina si sposerà nel 1937; entrambe le figlie femmine, come da tradizione, usciranno dal nucleo familiare originario. Al momento dell'eccidio, nel 1943, la famiglia conta anche quattro nuore, Margherita, Iolanda, Irnes e Verina e dieci nipoti, la più grande ha dieci anni e il più piccolo uno; inoltre Iolanda, vedova di Gelindo, aspetta un figlio che nascerà  tre  mesi dopo la strage. Alcide è il patriarca di una famiglia grande quasi quella paterna, lasciata nel 1920 per trasferirsi con la moglie e i figli ancora  piccoli a Olmo nel primo dei San Martino che la famiglia Cervi compie nel corso di vent'anni.

Ma la famiglia di Alcide non è più la tradizionale famiglia contadina; anche in questo i Cervi sono diversi. Il patriarca non ha il potere assoluto: secondo le testimonianze di Alcide, delle figlie e delle nuore, le decisioni più importanti sono prese al termine di consigli familiari in cui tutti i membri concorrono a stabilire un indirizzo, secondo un meccanismo democratico, raro per la realtà contadina del tempo. Si registra poi una insolita parità tra maschi e femmine, sia pure nella divisione dei ruoli e del lavoro: Antenore, quando gli nasce la prima figlia, fa suonare le campane a festa, saluto augurale riservato solitamente alla nascita dei maschi.

Nonostante i Cervi siano di estrazione cattolica, accolgono in casa Verina, compagna di Aldo: la coppia aveva deciso di non sposarsi, trasgredendo un costume rigorosamente osservato anche fra i comunisti.

 

La terra

 

La vicenda storica della famiglia Cervi parte dalla terra. I Cervi infatti sono una famiglia contadina, calata nel territorio e nella tradizione della media pianura padana.

In Emilia Romagna, fino alla metà del Novecento, la popolazione è prevalentemente occupata in agricoltura. Il paesaggio agrario dell’Emilia centrale è caratterizzato da un reticolo di poderi medio-piccoli, sparsi sul territorio e lavorati da piccoli proprietari, mezzadri e affittuari che risiedono sul fondo, mentre i grandi proprietari delle terre concesse a mezzadria e in affitto di norma abitano in città.  Fino  alla  fine  dell’Ottocento  l’asse

portante della produzione era costituito dai cereali, ma dai primi del Novecento le campagne reggiane si orientano soprattutto all’allevamento bovino, che richiede l’incremento delle colture foraggere, e alla produzione lattiero-casearia. A quest’epoca il paesaggio agricolo prevalente è quello della piantata: i campi coltivati sono intervallati da strisce di terreno in cui sono piantati olmi “maritati” alla vite. In questo modo i contadini possono disporre di legname per il fuoco e per costruire parte degli attrezzi di lavoro, il fogliame può essere raccolto per integrare l’alimentazione del bestiame, le colture sono parzialmente riparate dai venti e la vite è protetta dall’eccessiva umidità del terreno. Il paesaggio è completato da filari di salici, alberi da frutto e siepi di biancospino, piantati ai lati dei fossi nati per la regolamentazione delle acque.

Anche le attività della famiglia Cervi si collocano in questo preciso contesto rurale.

Alcide Cervi era nato a Campegine nel 1875, terzo figlio di una famiglia contadina che lavorava un terreno a mezzadria. Mezzadro era stato in seguito anche lui, per buona parte della sua vita lavorativa.

Il contratto di mezzadria, allora molto diffuso nell’Italia centro-settentrionale, prevedeva che ogni anno metà dei prodotti (ma spesso anche in percentuale maggiore) venisse consegnata al proprietario. Oltre a buona parte degli utili, al padrone spettavano la direzione dell’azienda e tutte le decisioni relative alla produzione e agli eventuali investimenti. Le migliorie sul fondo erano a carico del coltivatore, che doveva investirvi capitali e forza-lavoro. Anche per questo motivo le famiglie mezzadrili erano solitamente molto numerose: le braccia dei figli erano indispensabili per poter garantire tutti i lavori richiesti sul fondo senza ricorrere a braccianti salariati, che il padrone non avrebbe mai pagato di tasca propria. Contratto di breve durata, anche se teoricamente rinnovabile, la mezzadria accendeva spesso aspri conflitti tra proprietario e mezzadro; quest’ultimo era così costretto a “fare San Martino”, cambiare podere e padrone, rinunciando a godere degli utili che sarebbero arrivati grazie al suo faticoso lavoro sul fondo.

 

Nel 1921 Alcide lasciò il podere lavorato dal padre mezzadro a Tagliavino di Campegine e assunse, insieme alla moglie, la gestione a mezzadria di un proprio fondo, il podere Porta Nova a Olmo di Gattatico. Quattro anni dopo si trasferì su un nuovo terreno, i Quartieri nella tenuta di Valle Re a Campegine, dove rimase sino al 1934. In quell’anno, d’accordo con i figli ormai adulti, si trasferì ai Campi Rossi di Gattatico. 

Qui, per la prima volta, i Cervi divengono affittuari e possono finalmente provare a realizzare le loro idee di rinnovamento agricolo. Questo loro passaggio dalla condizione di mezzadri a quella di affittuari è la cifra di una tensione al miglioramento e al riscatto sociale: i Cervi sono contadini progressisti, intraprendenti, irrequieti.

Da subito sperimentano nuove tecniche per il livellamento del terreno e la rotazione delle colture su un podere di 65 biolche (circa 20 ettari). Nel giro di poco tempo, la terra dissestata dei Cervi diventa un modello di agricoltura razionale, che ha come perno l’allevamento di bovini da latte: in meno di dieci anni passano da 4 a 54 capi di bestiame. Nel 1939 Aldo torna a casa guidando un trattore appena acquistato, il primo della zona, che i contadini vicini accolgono “facendosi fuori” sull’aia, per vederlo passare.

Sul lavoro, ognuno aveva la sua postazione, come in guerra, racconta il vecchio Alcide: Aldo, Agostino ed Ettore nei campi, Antenore e Ovidio alla stalla, Ferdinando alla cantina e alle api, Gelindo ai maiali. Ettore, Aldo e il padre si occupano anche degli affari e dei mercati, tengono i rapporti coi Consorzi agrari.

 

I sette fratelli frequentano corsi professionali e di specializzazione, sono abbonati a riviste d’agraria, fondano una biblioteca, mentre il mondo contadino circostante era caratterizzato da un diffuso analfabetismo. La loro passione per la lettura e il progresso fu trasferita nel lavoro dei campi: dalle migliorie sul fondo, alla scelta di sementi selezionate, dalle modifiche alla stalla alla “meccanizzazione” del lavoro agricolo. Nel volgere di pochi anni raggiungono una produttività nettamente superiore a quella dei vicini. Significativamente, il giorno in cui la famiglia aveva terminato lo sterramento e la bonifica del fondo, il vecchio Alcide aveva brindato al progresso,  all’avvenire,  alla  felicità  del popolo che da magro e stento, come era la terra mia, diventi ricco e progredito come sarà domani la terra mia.La famiglia si offriva così ai contadini dei dintorni come modello, sul lavoro e nella lotta per la conquista dei diritti.

 

L’avvento e la diffusione del Fascismo, infatti, segnano una battuta d’arresto in questi processi di modernizzazione agricola, avviati faticosamente da alcune famiglie di contadini all’avanguardia. La spinta verso il progresso agricolo di cui parlava, entusiasticamente, il vecchio Cide al termine del livellamento sul suo fondo, s’interrompe o viene fortemente rallentata. Tra le cause sono da annoverare le scelte di politica monetaria e gli indirizzi produttivi del regime, cui si aggiungono gli effetti della crisi internazionale degli anni Trenta. Dietro la propaganda ruralista del regime si maschera la perdita di peso dell’agricoltura a favore dei centri di potere industriale, la crisi di molte colture specializzate, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori agricoli e la proletarizzazione dei ceti intermedi delle campagne.

 

E’ così che nei Cervi l’ambizione al miglioramento agricolo e al progresso economico si saldano strettamente alla dimensione dell’impegno politico, all’ambizione volta a un benessere diffuso, all’equità sociale, alla speranza di una complessiva palingenesi della società civile. Il problema era di cervello e di volontà e il loro impegno per la giustizia si trasferirà dal lavoro alla politica, dalla stalla alla piazza.

I Cervi, contadini di scienza com’ebbero a definirsi, capirono così che non erano più una famiglia di contadini e basta, ma che avrebbero, d’ora in poi, lavorato oltre alla campagna, (…) anche l’Italia e gli italiani, per togliere di mezzo il fascismo e l’ingiustizia. Il fascismo condannò a morte i sette contadini e con loro avrebbe voluto uccidere anche le loro idee di progresso agricolo e giustizia sociale. Quando i Cervi furono catturati, la notte del 14 novembre 1945, ai Campi Rossi la casa e il fienile vengono dati alle fiamme, il podere calpestato e saccheggiato, le scorte alimentari rubate, il bestiame disperso o macellato, gran parte dei loro libri stappati e bruciati.

 

E dopo la fucilazione dei fratelli, il fondo  in affitto rimane affidato alle cure del padre settantenne, delle quattro vedove e degli undici nipoti (la più grande aveva allora dieci anni). Ma il ceppo antico della famiglia patriarcale resiste e con lei il podere che, anche grazie al fattivo aiuto del cugino Massimo, negli anni ‘60 è acquistato dai Cervi con un mutuo bancario. Scrive orgogliosamente il vecchio Alcide al termine del suo libro di memorie: avevo sette figli, e ora ho undici nipoti. Avevamo 4 mucche, e adesso sono 54 capi di bestiame. Eravamo mezzadri, pieni di debiti, e adesso abbiamo ancora debiti da scontare per trent’anni, ma il fondo è dei nipoti e delle nuore. Non faranno più San Martino.

 

 

la resistenza dei Cervi

 

La famiglia Cervi è naturalmente antifascista e non nasconde sin dall'inizio il proprio dissenso nei confronti del regime. Impregnata di socialismo umanitario che al vecchio Cide deriva dalla predicazione laica del socialista Prampulein (Camillo Prampolini), la famiglia è di sentimenti e tradizioni cattoliche, ma segna, anche rispetto a questa ascendenza, una marcata autonomia. Aldo, scontando una condanna nel carcere militare di Gaeta (inflittagli per aver sparato a un ufficiale che tentava non autorizzato di accedere alla polveriera) studia all'università del carcere. Qui, nei primi anni Trenta, ha inizio la sua educazione politica e si concretizza la sua adesione al Partito comunista.  Al  ritorno a casa, comincia a

svolgere un'intensa attività propagandistica e più generalmente culturale, avversa al fascismo. Fonda una biblioteca, dove trovano posto libri di autori proibiti (London, Gorkji, Marx, Labriola) e testi di agraria, meccanica, botanica; porta i libri in provincia con la bicicletta, cura la diffusione della stampa clandestina con il suo personale metodo: legge ad alta voce ai contadini, sollecita opinioni, cerca lo scambio, chiede solidarietà. Gelindo è denunciato per offesa al capo del fascismo, Agostino rifiuta di prendere la tessera del partito. I Cervi agiscono alla luce del sole, come quando rifiutano di rispettare le norme sull'ammasso del grano (Gelindo sconta per questo una condanna in carcere), inducendo altri contadini a fare lo stesso, in cambio di carne e altri generi. Verso il 1940 i Cervi incontrano i Sarzi, famiglia di attori girovaghi che collabora con il Partito Comunista; comincia un'attività organizzata di stampa e diffusione di documenti e giornali clandestini, reperimento di armi, ricetto di disertori, prigionieri, disfattisti. L'abbattimento di un traliccio dell'alta tensione a Sant'Ilario d'Enza (senza l'autorizzazione della locale cellula comunista) a cui partecipano Ferdinando, Agostino e il cugino Massimo, segna l'inizio delle attività di sabotaggio dei Cervi. Il 25 luglio 1943 per far esplodere la contentezza, i Cervi preparano una colossale pastasciutta e invitano tutto il paese a mangiarla; già sorvegliati in quanto noti disfattisti, invitano a pranzo anche i carabinieri. Poco dopo accade uno degli episodi più tristi della resistenza reggiana: il 28 luglio gli operai delle Officine Meccaniche Reggiane stanno manifestando per la cessazione del conflitto: l'esercito spara sugli operai disarmati e lascia a terra nove persone. Il fatto ha una risonanza enorme sul territorio e contribuisce a cementare l'adesione della popolazione alla causa antifascista. Dopo l'8 settembre le campagne del reggiano pullulano di renitenti, disertori e dissidenti; la popolazione li aiuta a nascondersi. Casa Cervi sembra la società delle nazioni, la famiglia arriva ad ospitare un numero altissimo di rifugiati, alcuni dei quali si uniscono ai fratelli nella nascente “banda Cervi”. Il gruppo compie numerose azioni di sabotaggio e recupero di armi ai danni di caserme dei carabinieri, spesso con la tecnica del travestimento. Un'azione brillantemente condotta è quella della liberazione dei prigionieri di guerra reclusi nel campo di concentramento di Fossoli; i fuggiaschi vengono assistiti, curati e rivestiti con abiti civili; alcuni russi, tra cui Tarasov e Pirogov, e il sudafricano Jeppy entrano a far parte della banda. Nell'autunno inoltrato, dopo che si è aggiunto al gruppo anche il disertore Quarto Camurri, Cervi e compagni salgono in montagna: continuano le azioni incruente ai danni dei carabinieri e dei militari per il reperimento di armi. Sull'Appennino i partigiani trovano ospitalità e protezione nella canonica di Coriano di Tapignola, nascosti dal parroco don Pasquino Borghi, anch’egli in seguito fucilato dai fascisti. L'interventismo della banda, che agisce in piena autonomia ispirandosi alle direttive del partito comunista centrale, viene  criticato  dal  Comitato  Militare  di

Reggio, che teme l'incontrollabilità del gruppo, già attivo mentre la Resistenza è ancora in fase organizzativa. I Cervi allora tornano in pianura, continuando le attività di assistenza e rifugio ai dissidenti; in casa si panifica anche la notte, serve carne, burro, farina. Alcide calcola di aver dato ricetto in quei mesi a più di 80 rifugiati. Gelindo ha l'idea di imprimere con il ferro da stiro dei segni scuri sul muso delle vacche, simulando una epidemia di afta; l'ispettore sanitario certifica la malattia e i Cervi tengono tutto il latte per sé riuscendo così a fabbricare grandi quantità di burro. Continuano le azioni ai danni dei militari, come alla stazione di San Martino in Rio, dove i Cervi, che indossano uniformi tedesche, disarmano i carabinieri. Intanto la loro attività è ormai ben nota ai fascisti che sorvegliano la casa e la famiglia. I Cervi trasferiscono parte delle armi in montagna dove serviranno ad equipaggiare i nuovi distaccamenti della Resistenza che nel frattempo si vanno formando. Quando la pressione dei fascisti si fa palese, i Cervi cercano rifugio in case sicure, avvertendo il pericolo di restare ai Campi Rossi; queste operazioni sono difficoltose, alcune delle case individuate si rivelano insicure e alla vigilia di un nuovo trasferimento di prigionieri e armi, i Campi Rossi vengono circondanti da un reparto della Guardia Nazionale Repubblicana; è l'alba del 25 novembre 1943. Dopo aver opposto resistenza con le armi, i Cervi si arrendono quando il fienile già brucia. Decidono un piano: Aldo e Gelindo si prenderanno tutta la responsabilità delle azioni,  scagionando  i  fratelli.  Mentre vengono portati a Reggio Emilia, insieme al padre Alcide che chiede di andare coi figli, la casa è saccheggiata; le donne e i bambini sono ospitati dai vicini. Dal gruppo dei prigionieri, vengono separati subito gli stranieri, fra cui anche l’amico Dante Castellucci che riesce a farsi credere francese; i sette Cervi e Quarto Camurri sono tradotti al carcere dei Servi. Qui i fratelli subiscono percosse e interrogatori, confermando però la versione concordata. Si cominciano a preparare i piani per la fuga: dall'interno del carcere, i fratelli scavano con un cucchiaio un grosso mattone di tufo, all'esterno, Castellucci, evaso dal carcere di Parma, e il cugino Massimo Cervi organizzano i compagni per un'irruzione. Ma all'improvviso tutti sono trasferiti nel carcere di San Tommaso, e occorre preparare un nuovo piano per l'evasione che dovrebbe concretizzarsi nei giorni di Natale; l’azione viene in seguito rimandata al 31 dicembre. Ma la notte del 27 dicembre il prefetto di Reggio Emilia prende la decisione di uccidere i Cervi; non viene neppure convocato il Tribunale Speciale che sarà avvertito solo a cose fatte: la rappresaglia è decisa in risposta all'uccisione del segretario comunale di Bagnolo avvenuta proprio quel giorno, mentre i Cervi erano da tempo in carcere. Servono 10 “banditi partigiani” in cambio della vittima fascista. All'alba del 28 dicembre i sette e Quarto Camurri sono fatti uscire dal carcere e fucilati nell'area del poligono di tiro di Reggio. Il documento con cui la questura trasmette la notizia dell'esecuzione al capo della polizia presenta una nota scritta a penna a margine del lungo elenco di Cervi : sette fratelli? Tralasciando l'ipotesi, avanzata da alcuni, che la nota sia stata apposta di proprio pugno da Mussolini, sembra comunque che l'enormità dell’eccidio  non fosse sfuggita anche agli stessi gerarchi che infatti non diedero notorietà alcuna all'episodio, sottacendo i nomi degli elementi giustiziati. Le donne dei Cervi sapranno della sorte dei loro cari per vie traverse e non ufficialmente. Intanto il vecchio Cide è ancora in prigione; il 7 gennaio un bombardamento alleato distrugge il carcere di San Tommaso e i prigionieri scappano. Così Alcide torna a casa, ma non conosce la sorte dei figli che crede ancora vivi. Rimessosi dai rigori della detenzione, apprende la verità dalla moglie: i figli sono morti già da un mese. Sui superstiti si accaniscono a più riprese i fascisti; nel corso di un successivo incendio della casa, nell'ottobre del 1944, Genoeffa ha un attacco di cuore: muore il 14 novembre.

Intanto, sugli appennini, la Resistenza giungeva al suo apice e nasceva la prima brigata partigiana intitolata ai Fratelli Cervi.

 

Il mito: i Cervi dopo i Cervi

 

La fucilazione dei sette fratelli e di Quarto Camurri il 28 dicembre 1944 era stata eseguita senza darne alcun rilievo sui giornali. Della loro morte non si seppe nulla neppure all’interno delle organizzazioni politiche e militari della Resistenza. La responsabilità del gesto fu a lungo attribuita ai nazisti e non ai fascisti repubblicani. Molto poco uscì sui giornali anche nei mesi successivi. Quasi nulla avevano saputo per via ufficiale gli abitanti del reggiano delle vicende accadute ai Cervi, eppure il 28 ottobre 1945 una folla enorme partecipò alla traslazione delle loro salme dalla fossa comune di Villa Ospizio al cimitero di Campegine. Evidentemente sul loro conto dovevano essere circolate notizie trasmesse oralmente ed erano nate leggende in grado di catturare l’attenzione popolare e di attirare una così grande folla ai  loro  funerali.  Allo stesso modo,  fu già

all’indomani dell’eccidio, che la gente dei dintorni cominciò spontaneamente a recarsi in visita alla casa dei Cervi ai Campi Rossi, per vedere le stanze dove i fratelli avevano abitato, per parlare con Alcide e con  i superstiti di quella abnorme tragedia famigliare. Fu così, “dal basso”, che nacque l’idea della casa-museo.

Tuttavia perché venisse diffusa e organizzata, anche a livello nazionale, una più ampia conoscenza delle vicende relative alla famiglia Cervi occorrerà attendere ancora qualche tempo.

 

Domenica 17 gennaio 1954 il vecchio Alcide Cervi entrò nel palazzo del Quirinale per incontrare il primo presidente eletto della Repubblica italiana, Luigi Einaudi.

Il contadino emiliano era “orfano” dei suoi sette figli caduti nella Resistenza. Portava appuntate sul petto sette medaglie d’argento. Il presidente piemontese voleva onorare di persona chi aveva pagato un prezzo tanto alto alla liberazione del Paese. Poche settimane prima (nella ricorrenza del decimo anniversario della fucilazione dei fratelli Cervi) Einaudi aveva scoperto la figura di Alcide grazie a un articolo pubblicato sulla rivista dell'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, «Patria indipendente». L'articolo era stato scritto da Italo Calvino.

 

Il trentenne ex partigiano Calvino era già autore e funzionario della casa editrice Einaudi e collaboratore fisso de «l'Unità». Sul giornale di partito Calvino aveva pubblicato, negli ultimi giorni del 1953, un secondo articolo sui Cervi.

Per scrivere quei pezzi si era recato di persona a Gattatico, nella "bassa" emiliana fra Parma e Reggio. Aveva visitato la casa colonica dove i sette fratelli resistenti (e il padre stesso) erano stati catturati dagli uomini di Salò il 25 novembre 1943, un mese prima di essere messi al muro senza processo.

 

Aveva incontrato papà Alcide, basso e solido e nodoso come un ceppo d'albero: il padre scampato al terrore e al dolore, rimasto vedovo subito dopo la morte dei figli. Aveva parlato con almeno una delle vedove dei fratelli, e con la maggiore degli undici orfani, la ragazza coi capelli rossi che quando i fascisti assediarono la casa aveva nove anni, e adesso ne ha diciannove.

 

Calvino era rimasto folgorato dalla visita alla famiglia Cervi. Lo si capisce dal tono insieme complice e solenne, familiare e fiabesco, che caratterizza i suoi articoli del dicembre del '53.

 

Fu proprio l’eloquenza schietta di Calvino a folgorare – di riflesso – anche un "padre della patria" che si era imposto all'attenzione dell'opinione pubblica, dopo gli anni della Costituente, come il massimo cantore della Resistenza: il giurista fiorentino Piero Calamandrei. Sulle orme di Calvino, anche Calamandrei aveva visitato casa Cervi. E sulla falsariga degli articoli di Calvino, Calamandrei aveva preparato un discorso in onore di Alcide che egli tenne al teatro Eliseo di Roma il 17 gennaio 1954: proprio lo stesso giorno

in cui, al Quirinale, il contadino emiliano era stato ricevuto dal presidente piemontese.

 

Le fondamenta del mito dei fratelli Cervi furono gettate allora, nel mese scarso che separò la pubblicazione degli articoli di Calvino dall'orazione di Calamandrei. Allora prese corpo una sorta di tacita intesa fra il giovane narratore e il maturo giurista, per rappresentare i sette fratelli emiliani come il simbolo uno e plurimo dell'epos resistenziale. Il "lavoro culturale" di Calvino fu infatti tale da spingere i dirigenti nazionali del Pci a riappropriarsi del ricordo dei sette fratelli, anche se all’indomani dell’8 settembre 1943 non erano mancate le frizioni proprio con i dirigenti locali del Partito comunista clandestino, che accusavano i Cervi di comportamento «anarcoide». Nei due o tre mesi intercorsi fra l'inizio della Resistenza e la loro morte, i sette fratelli erano stati infatti un’avanguardia consapevole e appassionata quanto isolata. Ciò nonostante, sulla scia di Calvino e Calamandrei, cominciarono a metà degli anni ’50 una serie di operazioni culturali volte a trasformare i sette figli del pur sempre cattolico Alcide nel martirologio resistenziale comunista.

 

Nel 1954 anche il segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti, compì il pellegrinaggio a Gattatico per incontrare Alcide Cervi. Nello stesso periodo la Commissione stampa e propaganda del Pci – dove lavorava un giovane Sandro Curzi, allora cronista de «l'Unità» – decise di mobilitarsi per allestire un libro di memorie firmato da "papà Cervi". L'onore toccò a un altro giornalista del quotidiano di partito, Renato Nicolai, che produsse per gli Editori Riuniti un volumetto, oggi da poco riedito da Einaudi. Pubblicato per la prima volta nell'autunno 1955, I miei sette figli fu uno straordinario bestseller. Venne promosso capillarmente presso le sezioni del Pci, fu messo in vendita attraverso un sistema di pagamento rateale, ebbe in seguito molte ristampe e numerose traduzioni.

 

Da questo momento in poi si moltiplicano gli scrittori e gli artisti, che prestano la loro voce alla storia dei fratelli Cervi.

Nel 1954, nella raccolta Il falso e il vero verde, Salvatore Quasimodo pubblica la poesia Ai fratelli Cervi e alla loro Italia.

L’anno successivo, in occasione dell’ottantesimo compleanno del vecchio Cide, Gianni Rodari dà alle stampe il lungo poema Compagni fratelli Cervi. Brani di questa poesia sono confluiti recentemente nella canzone Sette fratelli, edita nell’album Sputi (2004) dei Mercanti di liquore e cantata in diverse occasioni con Marco Paolini.

Nel 1968 fu terminato il film I sette fratelli Cervi  diretto da Gianni Puccini (aiuto regista era il giovane Gianni Amelio), un altrettanto giovane Gian Maria Volonté recitava nel ruolo di Aldo. Il film fu a lungo boicottato per censura preventiva e tardò a uscire nelle sale.

Nel 1974 il poeta spagnolo Rafael Alberti, amico di García Lorca, Neruda e Picasso, compose la Ballata dei sette fratelli Cervi. Il gruppo musicale Gang nel 1995 incide La pianura dei sette fratelli nell’album Una volta per sempre, in seguito ripresa anche dai Modena City Ramblers in Appunti Partigiani (2005).Infine, la band emiliana Casa del Vento pubblica la canzone Campi Rossi nella raccolta di canti d’ispirazione partigiana Il fuoco e la neve (2008).

Il vasto fenomeno editoriale del libro di Nicolai e la produzione letteraria, cinematografica, musicale che ne seguirono, servirono a mostrare agli italiani del dopoguerra come la storia della Resistenza nella "bassa" emiliana non fosse affatto riconducibile alla caricatura infamante che andava veicolandone la propaganda anticomunista, tutta impegnata a denunciare i crimini del cosiddetto «triangolo della morte».

Nei dintorni di Reggio Emilia, durante la guerra civile del 1943-45, i partigiani "rossi" erano stati vittime dei nazifascisti. Era questa la lezione che veniva (e che ancora viene) dalla storia dei fratelli Cervi, fucilati senza processo senza che avessero, loro, mai ucciso nessuno. Era questa la «storia familiare» che per diventare «storia d'Italia» – aveva teorizzato Italo Calvino – aveva bisogno di farsi mito.

Fu solo allora che il vecchio Cide divenne, per tutti, Papà Cervi. La sua voce assunse il respiro corale di quei tempi e di quei luoghi.